Biocarburanti: un'illusione?

Torino, 27 gennaio 2008

I biocarburanti sono considerati una delle possibili alternative all'utilizzo del petrolio e molti governi stanno investendo pesantemente su questa tecnologia. Si dice infatti che i biocombustibili sono prodotti migliori dei combustibili fossili per l'ambiente e potrebbero garantire la sicurezza energetica per molte nazioni. In particolare, il biodiesel è uno dei prodotti di origine vegetale su cui si punta di più. Tuttavia, se, all'inizio, i biocombustibili venivano considerati come una sorta di panacea, soprattutto per le Nazioni a corto di combustibili ed in occasione dei periodi di forte crescita del prezzo dei prodotti petroliferi, recentemente la comunità scientifica sta mettendo in luce anche gli aspetti negativi dei biocombustibili. Vorrei proprio parlare di questi aspetti.

Innanzitutto vediamo che cos'è esattamente il biodiesel. Tecnicamente, si tratta di un biocombustibile liquido, trasparente e di colore ambrato, ottenuto mediante processi chimici interamente da olio vegetale (colza, girasole, palma o altri); ha una viscosità simile a quella del gasolio per autotrazione ottenuto per distillazione frazionata del petrolio grezzo. A livello di carburante, il biodiesel può essere abbastanza tranquillamente usato, mescolato con il gasolio tradizionale in proporzioni variabili, nei moderni motori diesel. Teoricamente potrebbe funzionare anche puro, ma nella pratica lo si usa mescolato in proporzioni variabili ma comunque piccole (5-20%). Possiede un maggiore potere solvente rispetto al diesel tradizionale. Può sembrare incredibile, ma Rudolf Diesel stesso, all'epoca dell'invenzione del suo motore (nel 1892 circa), era dell'opinione che l'utilizzo della biomassa per la produzione di carburante potesse essere una metodologia utile. Il motivo per cui si passò al petrolio fu soltanto la sua maggiore convenienza rispetto alla biomassa. 

Chimicamente, il biodiesel è composto da una miscela di esteri alchilici di acidi grassi a lunga catena. Per convertire questo composto e rimuoverne gli acidi grassi liberi, viene effettuato un processo di transesterificazione dei lipidi, dopo il quale il biodiesel possiede proprietà di combustione simili al diesel ricavato dal petrolio. Il biodiesel, contrariamente al gasolio, è biodegradabile e non tossico, e riduce significativamente le emissioni tossiche quando viene bruciato come carburante. Infatti, le emissioni nette di ossido di carbonio (CO) sono inferiori del 50% circa e quelle di biossido di carbonio (CO2) del 78%. Il motivo è che il carbonio emesso è quello che era già presente nell'atmosfera e che la pianta ha fissato durante la sua crescita. Si noti che anche nel caso del gasolio tradizionale il carbonio deriva dai residui vegetali rimasti intrappolati in tempi remoti nella crosta terrestre, ma la differenza sta proprio nei tempi: il ciclo del carbonio per il biodiesel si limita a pochi anni (quelli necessari allo sviluppo delle piante), mentre per il gasolio tradizionale è di milioni di anni, e questo è il motivo dello squilibrio. Inoltre, il biodiesel contiene una minima quantità di idrocarburi aromatici, non produce emissioni di diossido di zolfo (SO2) perché non contiene zolfo, e riduce l'emissione di polveri sottili fino ad un massimo del 65%. L'unico inconveniente è un maggiore tasso di emissione di ossidi di azoto (NOx) rispetto al gasolio, che potrebbe essere risolto con l'uso di appositi catalizzatori negli scarichi.


Biodiesel (da Wikipedia)

Frutti di palma da olio (da Wikipedia)

Piantagioni di palma da olio intorno al parco nazionale di Tanjung Puting in Kalimantan, (immagine dal satellite indonesiano con Google Earth, da questo sito)

Distruzione della foresta pluviale vicino alle piantagioni della palma da olio nel Kalimantan (
da questo sito)

Piantagione di palma da olio in Malesia (
da questo sito)

Lavoratori a Sumatra raccolgono i frutti delle palme per la produzione di biodiesel (da CNN)

Il biodiesel può essere prodotto a partire da oli vegetali vergini (di colza, soia, ma anche di senape, palma ed alghe marine), da oli vegetali di scarto, ed anche da grassi animali. La produzione degli ultimi due è esigua ai fini della conversione in biodiesel e non è utilizzata se non a scopo dimostrativo, mentre le piante potrebbero fornire una fonte sostenibile per la produzione di biodiesel. Secondo quanto riportato su questo sito (ma si veda anche Journey to Forever), la produzione media di alcune piante (in m3/Km2) è:

•    Soia: da 40 a 50
•    Senape: 130
•    Colza: da 100 a 140
•    Olio di Palma: 610
•    Alghe: da 10,000 a 20,000 (stimate perché non esistono ancora coltivazioni - si veda il pensiero del 13/01/2008)

C'è da dire che l'efficienza del biodiesel non è la stessa del diesel tradizionale, ma decisamente inferiore. Inoltre, occorre tenere conto delle problematiche ambientali legate alla necessità di intraprendere coltivazioni a grande scala delle piante sopraindicate. Ancora, per valutare l'efficienza del biodiesel occorre valutare non solo l'efficienza termodinamica dello stesso ma anche quanta energia è necessaria per produrlo (e quante emissioni). Tale discorso non vale ovviamente soltanto per il biodiesel ma per qualunque fonte energetica cosiddetta alternativa al petrolio. Tanto per fare un esempio, le emissioni del biodiesel potranno essere trascurabili durante la combustione, ma occorre considerare anche le emissioni durante la preparazione del terreno per la semina, la semina, la crescita (concimazione, irrigazione, ...), il raccolto e la preparazione, nonchè il trasporto presso le sedi di utilizzo, ossia le emissioni durante tutto il ciclo. 

A livello di rendimento della pianta, per quanto riguarda l'olio derivato dalle palme, l'olio è derivato dai frutti della pianta, che si sviluppano in serie di grappoli o caschi dal peso di 40-50 Kg. 100 Kg di semi producono tipicamente 20 Kg di olio. I frutti si raccolgono in genere a mano, lavoro difficile nel clima tropicale dove le palme da olio prosperano. Una palma può vivere fino a 150 anni e raggiunge l'altezza di 25 m, ma in genere le piante vengono abbattute dopo i 25 anni di vita, quando oltrepassano i 10 m di altezza, a causa della difficoltà nella raccolta manuale dei frutti ad altezze superiori.

Proprio per valutare se il dispendio energetico per produrre un litro di biodiesel abbia senso (cioè se venga consumato meno di un litro di carburante per produrre un litro di biodiesel), si utilizza un indice che definisce la resa energetica, cioé il rapporto tra energia ottenuta (ricavata) e quella spesa (investita). Il valore medio considerato per la resa energetica del biodiesel è circa 3, valore molto inferiore a quello degli impianti eolici (20-30) o del petrolio (10-100). Su questo argomento però i pareri sono discordi. Secondo gli scienziati  Pimentel e Patzek (si veda questo articolo al riguardo, e la sua bibliografia), la resa energetica del biodiesel da soia, girasole, mais, legno ed erba è negativa. Secondo altri studi, invece, la resa energetica varia tra 1 e 8.

Un ulteriore problema relativo al biodiesel prodotto da biomassa vegetale è quello dell'insufficienza delle risorse. Tenuto conto della resa produttiva (quantità di prodotto per unità di superficie agricola), se ne può dedurre che l'intera estensione di terreni agricoli coltivabili per molti Paesi (tra cui l'Italia) non permetterebbe, allo stato attuale, di produrre sufficiente biodiesel da soddisfare la domanda. Nei Paesi in via di sviluppo, visto il consumo minore di combustibile, il discorso è diverso. In ogni caso, a livello globale, secondo i calcoli del biologo Jeffrey Dukes (2003), la produzione di biodiesel a scala globale non riuscirà mai ad uguagliare la domanda: infatti, la quantità di combustibili fossili consumata in un anno equivale a 400 volte la produttività netta primaria dell'attuale complesso di organismi vegetali ed animali del pianeta. In ogni caso, il rischio dell'utilizzo di sempre più terreni per la produzione di biodiesel potrebbe essere quello di sottrarre tali terreni alla produzione agricola alimentare, con conseguenze potenzialmente disastrose: aumento dei prezzi delle materie prime, dei terreni agricoli e diminuzione delel risorse alimentari, oltre che ovviamente il problema dell'ecosistema. Il discorso sarebbe diverso per quanto riguarda la produzione di biodiesel da alghe marine, ma al momento tale tecnica non è ancora operativa. 

Proprio la domanda di terreno è un punto dolente. Recentemente, Friends of Earth ha pubblicato un rapporto (vedere qui) sull'impatto ambientale dovuto alla produzione di olio di palma. "Tra il 1985 e il 2000", si legge nel documento, "si è stimato che lo sviluppo delle piantagioni di palme è stato responsabile dell'87% della deforestazione in Malaysia". A Sumatra e nel Borneo, 4 milioni di ettari di foreste sono stati convertiti in coltivazioni di palme. Ora si prevede che altri 6 milioni di ettari di foreste verranno eliminati in Malaysia, e 16.5 milioni in Indonesia. Il problema è drammatico: le foreste autoctone sono state distrutte, e con loro sono a rischio i loro abitanti: i rinoceronti, le tigri, i gibboni, i tapiri, le scimmie proboscide e migliaia di altre specie. Senza contare che migliaia di abitanti sono stati allontanati con la forza dalle loro terre (in Indonesia).

La palma usata per queste coltivazioni (come dice il suo nome latino: elaeis guineensis) non è nativa dell'Asia ma è originaria dell'Africa tropicale, in particolare della foresta pluviale di Sierra Leone, Congo e Repubblica democratica del Congo, e fu introdotta in Malesia all'inizio del ventesimo secolo. Quando le foreste originali vengono abbattute, per creare terreno utile alle nuove piantagioni di palme, i vecchi alberi vengono bruciati. E qui il bilancio di CO2 non torna: le foreste autoctone sono costituite da grossi alberi, e se questi vengono bruciati direttamente tutto il carbonio in essi contenuto viene rilasciato in atmosfera. Inoltre, le piantagioni si stanno trasferendo nelle foreste paludose, formate da torba. La procedura prevede che, una volta abbattuti gli alberi, si proceda ad asciugare il terreno. Nel momento in cui la torba si asciuga il terreno si ossida, rilasciando più una quantità di diossido di carbonio perfino maggiore di quella dovuta alla combustione degli alberi. In termini di impatto ambientale locale e globale, il biodiesel delle palme è più distruttivo di quello da petrolio.

Inoltre, va considerato un altro fattore critico. Oltre alla perdita degli ecosistemi della foresta originale ed ai problemi dell'inquinamento causato dalla combustione degli alberi (sia di quelli originali sia delle palme una vlta esauritasi la loro vita produttiva utile), occorre considerare anche la catena della produzione dell'olio di palma. I dati disponibili relativi alla Malesia mostrano che, a fronte di una produzione nel 2001 di 7 milioni di tonnellate di olio di palma grezzo, vi sono stati circa 10 milioni di tonnellate tra residui inutilizzabili di olio, fibre e residui di palme, ed altri 10 milioni di tonnellate di prodotto macinato oleoso, di fibre ed acqua, e residui grassi, che avranno sicuramente un effetto non favorevole sugli ecosistemi acquatici. Senza contare, poi, che per gli antiparassitari, i diserbanti ed i fertilizzanti irrorati durante il ciclo produttivo delle piante sono state usate macchine che funzionano almeno parzialmente con combustibili fossili. Tutto questo dimostra che in realtà il biodiesel prodotto dall'olio di palma, nella realtà, inquina molto di più di quanto si pensi, sia a livello di inquinamento locale sia a livello di emissioni serra. In Indonesia, quando una piantagione di palme ha prodotto frutti per oltre 25 anni, essa viene abbandonata in quanto i terreni sono così poveri di sostanze nutrienti da risultare praticamente improduttivi.

Secondo il rapporto di Friends of Earth (vedere qui), negli anni del decennio 1990 l'Indonesia ha convertito circa 9 milioni di ettari per la coltura della palma da olio, ma di questi, fino al 2004, soltanto in circa il 58% di questa zona sono state realmente piantate delle palme. La produzione in Indonesia nel 2004 è stata di 11.4 milioni di tonnellate di olio di palma grezzo. L'Indonesia ha annunciato che progetta di raddoppiare la sua produzione grezza di olio di palma entro il 2025. Per perseguire tale obbiettivo, sembrerebbe che l'Indonesia progetti di espandere le proprie zone coltivate a palma e di espandere le piantagioni nella foresta del Borneo, in territorio malese ancora ricoperto da foresta vergine. Attualmente oltre il 50% delle terre coltivabili in Malesia è adibito alla coltivazione della palma, e la Malesia è il maggiore produttore ed esportatore mondiale di olio di palma, anche se recentemente l'Indonesia sta aumentando vertiginosamente la sua produzione. Una delle regioni più produttive è il Borneo, che storicamente è sempre stata una zona poco popolata a causa del suo clima altamente inospitale ma che adesso registra da circa trent'anni un continuo flusso migratorio. In Brasile, si registrano problemi analoghi relativi alle coltivazioni di canna.

Dal punto di vista economico, è chiaro che, in nazioni come l'Indonesia e la Malesia, la produzione di biocombustibile rappresenta un indubbio vantaggio: ad esempio, nel 2006 la Malesia da sola avrebbe prodotto 3.5 milioni di tonnellate di olio da palma (con un incremento di un quinto in un solo anno), corrispondenti all'1% del valore delle esportazioni totali della Malesia. Secondo Regan Suzuki (fonte CNN), della Food and Agriculture Organization dell'ONU, le nazioni tropicali e subtropicali hanno dei vantaggi economici nel coltivare piante per la produzione di biocombustibili, sfruttando la debolezza delle risorse, ed il fatto che le persone, la flora e la fauna non hanno praticamente diritti. La disponibilità di territorio è un fattore critico, specialmente nella zona asiatica del Pacifico. Inoltre, un altro fattore critico potrebbe essere la carenza di acqua, dal momento che le piante da biocombustibile richiedono ingenti quantitativi di acqua (questo potrebbe essere un fattore critico soprattutto in vista della prevista espansione di queste colture in India e Cina).

Chi sono, nel mondo, i grandi importatori di olio di palma? Uno di essi è sicuramente la Cina, che avrebbe investito o conterebbe di investire 7.5 miliardi di dollari nel progetto indonesiano ed in contraccambio riceverebbe la gestione di un terzo delle piantagioni. Ma anche l'Unione Europea (in particolare la Gran Bretagna) è interessata ai biocombustibili al fine di poter diminuire del 20% entro il 2020 il suo consumo di combustibili fossili. Senza contare che, al giorno d'oggi, l'aumento dei prezzi del petrolio fa sì che il biocombustibile risulti anche conveniente. Al momento si stima infatti che il prezzo di un barile di olio di palma grezzo si aggiri intorno a 60 US$, o poco più, da rapportare al prezzo del petrolio, che ora è vicino a 100 US$. Se le coltivazioni di palma si estenderanno, è plausibile che il prezzo cali ulteriormente, rendendolo quindi competitivo rispetto al petrolio. C'è da dire che questi prezzi non tengono conto del danno ambientale, fatto comunque comune anche per il petrolio fossile.

Per tutti questi motivi, la comunità scientifica esprime una seria preoccupazione per le proposte dei vari governi (specialmente Indonesia, Malesia ma anche India) di trasformare ulteriormente ampie porzioni di foresta pluviale in piantagioni di palme. Tra l'altro, anche il fatto di essere dipendenti da un unico tipo di pianta, in questo caso le palme, è pericolosa: infatti, se per qualche motivo questa pianta venisse ad ammalarsi o ad essere attaccata da qualche parassita, o comunque a deperire, l'intera produzione di biocombustibile verrebbe ad essere compromessa. La storia infatti insegna che le economie agricole basate su un unico tipo di pianta hanno avuto periodi di carestie estremamente gravi (l'emblema è il caso della coltivazione delle patate in Irlanda e le carestie dei 18° secolo - si veda il libro The Little Ice Age di Brian Fagan). 

Al momento la posizione dell'Unione Europea sarebbe quella di convincere i produttori di olio di palma a far sì che le loro piantagioni danneggino il meno possibile l'ambiente (si veda la tavola rotonda sull'olio di palma sostenibile - RSPO). Tecnicamente, questo potrebbe essere fatto usando strumenti "finanziari" (se nessuno richiede l'olio di palma non prodotto in modo rispettoo dell'ambiente, non lo produrranno), cioé l'Europa dovrebbe informare i produttori che è disponibile ad acquistare l'olio di palma a condizione che vi sia una certificazione indipendente che è stato prodotto con tecnologie rispettose dell'ambiente.

Buoni propositi, ma che, secondo me, lasciano aperti moltissimi legittimi dubbi al riguardo. Innanzitutto, da quanto si è visto, le palme danneggiano il terreno in modo irreversibile. Il terreno delle foreste pluviali ha la tendenza a perdere il suo nutrimento quando viene a mancare la copertura della foresta stessa, a causa dell'estrema violenza delle piogge. La sostituzione di intere foreste pluviali con foreste di palme provoca danni ambientali enormi agli ecosistemi (scomparsa ed estinzione di molte specie animali e vegetali) e riduce la biodiversità. Inoltre, la produzione di biocombustibili non potrà mai soddisfare se non una quota esigua della domanda attuale di combustibili nel mondo, anche se venissero impiegati tutti i terreni disponibili. Mentre la domanda di combustibile è in continua crescita, la produzione del petrolio si sta avvicinando al suo picco, sempre che non l'abbia già raggiunta, e nel prossimo futuro questo fatto farà sì che ci saranno pressioni incredibili, anche economiche, che stimoleranno la produzione di biocombustibili. Le ripercussioni sul clima locale e globale della sostituzione delleforeste pluviali con le piantagioni di palme non sono al momento note, e forse quando lo saranno sarà troppo tardi per porvi rimedio. Inoltre non è ben chiaro quanto i biocombustibili siano davvero meno inquinanti rispetto ai combustibili tradizionali fossili, quando si considerino tutte le emissioni di inquinamento e di gas serra coinvolte nell'intero ciclo produttivo.

La domanda di energia nel mondo è un problema globale. Di sicuro, la riduzione della domanda attraverso la riduzione degli sprechi e dei consumi laddove possibile costituirebbe il primo obbiettivo da perseguire. I biocombustibili, allo stato attuale, non sembrano garantire nè il quantitativo sufficiente nè la riduzione di inquinamento che si sperava, e forse converrebbe continuare la ricerca scientifica su queste tecnologie, ma investire anche su altre fonti di produzione di energia che risultano, allo stato attuale, più idonee.
 

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