Tagli alle emissioni sì, ma solo se conviene...

Torino, 18 ottobre 2008

È passata quasi sotto silenzio, nei giorni scorsi, la notizia del summit dell'UE (Unione Europea) di Bruxelles dedicata a discutere sull'accordo relativo alla riduzione delle emissioni di biossido di carbonio. Da sabato, invece, infuria la polemica nell’attuale dibattito sul 20-20-20 (riduzione delle emissioni di gas serra del 20% entro il 2020). Ma non tutti forse sanno che, tra tutti i Paesi dell'UE, in particolare sono due quelli che hanno fatto di tutto per ostacolare o rinviare l'accordo: Italia e Polonia. Alla fine, il "temuto" strappo minacciato da queste due nazioni non c'è stato, e l'UE non ha potuto far altro che accogliere le istanze di Italia e Polonia sul pacchetto clima-energia. Pertanto, il risultato del summit è che ogni decisione sarà rimandata ad una riunione successiva da farsi entro dicembre, scadenza ultima entro cui trovare un accordo. Ricordiamo che una decisione dell'UE obbliga tutti i paesi della Comunità a raggiungere entro il 2020 un taglio delle emissioni di biossido di carbonio del 20%, e ad aumentare l'energia prodotta dalle fonti rinnovabili di un altro 20%, e la dichiarazione seguita all'incontro dei G8+5 di Heiligendamm del giugno del 2007 ha annunciato l'intenzione di dimezzare le emissioni globali entro il 2050. Tuttavia, dopo questo summit, l'UE dovrà quindi tenere conto in modo rigoroso dell'impatto sui costi delle imprese che comporta il pacchetto europeo sul clima e l'energia.

Il governo italiano ha annunciato, con toni trionfalistici, che, grazie all'intervento dell'Italia, in questo momento di grave crisi economica, si è deciso di far valere il principio che gli sforzi in questo campo devono essere commisurati alle rispettive possibilità dettate dalla situazione economica dei vari Paesi. Infatti, è lo stesso ministro degli Esteri Frattini ad affermare che, dopo una discussione importante, il Consiglio ha condiviso la sostanza delle obiezioni italiane sul pacchetto clima-energia, aggiungendo che i Paesi europei hanno capito che "non si può in una materia del genere ignorare la proporzionalità e la flessibilità". Anche il Presidente del Consiglio ha affermato con soddisfazione che questa "soluzione ha esaudito in pieno le nostre richieste ed è una soluzione alle nostre preoccupazioni".

E pensare che, soltanto un anno fa, i leader dei G8+5 avevano fissato l'obiettivo di abbassare del 50% le emissioni previste nel 2050 (senza contare, poi, che alcuni sono dell'opinione che si dovrebbe osare ancora di più...), e che tra i G8 ci siamo anche noi italiani. Ma è bastato il crollo delle borse per far emergere il vero orientamento di questo esecutivo: la riduzione delle emissioni è un lusso che ci si può permettere soltanto quando l'economia va bene!

La pensa in maniera ben diversa David King, direttore della Smith School of Enterprise dell'Università di Oxford ed ex consulente scientifico capo del governo britannico, il quale afferma che la comunità economica deve imparare a vedere le opportunità di una società che riduce il consumo di combustibili fossili, e che prevede che diventeranno ricchi coloro che sapranno trovare sfruttare soluzioni innovative per ridurre le emissioni. Tuttavia, lo stesso King riconosce che questa svolta economica potrà verificarsi soltanto se i politici sapranno individuare il giusto quadro normativo per fare in modo che le aziende riescano a vedere queste opportunità. Purtroppo, i segnali che vengono dall'Italia, o meglio dal governo italiano, sembrano andare proprio in tutt'altra direzione, e la nostra Nazione si sta dimostrando, agli occhi di tutta Europa e di tutto il mondo, più conservatrice dell'America di Bush su queste tematiche.

L'anno prossimo i negoziatori dei 190 Paesi che hanno firmato il protocollo di Kyoto si incontreranno a Copenhagen per discutere del nuovo protocollo post-Kyoto, che coinvolgerà anche alcune nazioni che non facevano parte del cosiddetto annesso 1 del protocollo di Kyoto e che erano quindi esentate dal rispettare i limiti alle emissioni (come, ad esempio, la Cina, ma anche altra nazioni). Vale la pena, a questo proposito, riportare alcuni dati, tratti dal libro scritto da Gabrielle Walker e David King "Hot topic", appena uscito nell'edizione italiana "Una questione scottante", edizioni Codice. In questa tabella, tutti valori provengono da un rapporto commissionato dal governo britannico a una società di consulenza tedesca, la Ecofys. I dati qui riportati si riferiscono all'emissione di tutti gas serra calcolati come equivalenti di anidride carbonica. Le emissioni pro capite e quelle totali si riferiscono al 2004. Le emissione storiche sono valori derivati dalle medie annuali dal 1900 al 2004, per ogni cittadino dell'attuale popolazione. I dati tra parentesi relative al Brasile si riferiscono alla deforestazione.

Nazione Emissioni pro-capite
(tonnellate/persona)
Emissioni pro-capite storiche
(tonnellate/persona)
Emissioni totali
(Mtonnellate)
Variazione
dal 1990
Ratificato
Kyoto?
Obbiettivo
per Kyoto
Cina 5.0 1.2 6467 + 72.7% si --
Brasile 5.3 (+7.0) 1.6 983 ( + 1100)  + 40.7% si --
Sudafrica 11.1 3.6 505 + 29.7% si --
Messico 5.0 1.3 520 + 38.6% si --
India 1.6 0.6 1744 + 57.5% si --
Stati Uniti 24.0 12.7 7065 + 15.7% no - 7%
Fed. Russa  13.5 7.1 1938 - 35.1% si 0%
Giappone 10.6 4.0 1355 + 8% si - 6%
Canada 23.7 9.8 758 + 27% si - 6%
Australia 26.2 10.3 529 + 25.9% si + 8%
Francia 9.0 6.6 563 - 0.4% si 0%
Germania 12.3 9.0 1015 - 17.5% si - 21.0%
Regno Unito 11.0 11.2 656 - 14.2% si - 12.5%
Italia 10.0 4.2 583 + 12.3% si - 6.5%

Le prime cinque nazioni che compaiono in questa tabella, pur avendo ratificato il protocollo di Kyoto, non fanno parte dell'annesso 1 in quanto nazioni in via di sviluppo e pertanto non possiedono obblighi (colonna "obbiettivo per Kyoto"). La situazione europea è particolarmente poco omogenea, con alcune Nazioni che hanno già ottenuto una riduzione significativa delle emissioni rispetto al 1990 (come Germania e Regno Unito). L'Italia ha una posizione decisamente di retroguardia nel panorama dell'Europa occidentale, in quanto le sue emissioni, invece di diminuire rispetto a quelle del 1990, sono aumentate, allontanandola sempre di più dell'obiettivo del protocollo di Kyoto. Nonostante alcune amministrazioni regionali, provinciali e comunali abbiano agito in modo anche incisivo, promuovendo buone iniziative nel campo della riduzione dell'emissione, è mancata, da parte dei vari governi succedutisi, una seria e capillare azione di informazione e di educazione del pubblico al problema clima, e soprattutto è mancato un piano energetico nazionale credibile per limitare la grande (e costosa) dipendenza dai combustibili fossili. Lo sviluppo delle fonti di energia alternative procede a rilento: l'energia solare, abbondantissima nel paese (non a caso l'autostrada che unisce il Nord al Sud si chiama l'"autostrada del Sole"...), è ancora sfruttata pochissimo, soprattutto se ci si confronta con la Germania, Paese certamente meno favorito da questo punto di vista, ma che possiede una lunga e illustre tradizione di sostegno alle cause ambientaliste, in generale, e alla lotta al cambiamento climatico in particolare. La Germania è stato uno dei primi Paesi europei a fare ampio uso di energia eolica e solare, ed è attualmente leader mondiale nella produzione di asportazione di congegni per l'energia rinnovabile.

Sotto la spinta del governo tedesco della Merkel, di quello britannico di Blair e di quello francese di Sarkozy, durante l'incontro dei G8+5 (5 Paesi in rapido sviluppo) di Heiligendamm del giugno del 2007 si è prodotta una dichiarazione straordinaria sul cambiamento climatico: "Prendiamo atto con preoccupazione del recente rapporto IPCC e delle sue scoperte. Siamo convinti che sia necessaria un'azione urgente concertata e accettiamo la nostra responsabilità nel prendere la leadership nella lotta contro il cambiamento climatico. Nel fissare un obiettivo globale di riduzione delle immissioni, nell'ambito del processo su cui tutti i maggiori emettitori hanno concordato a Heiligendamm, considereremo seriamente le decisioni prese dall'unione europea, dal Canada e dal Giappone, che implicano almeno un dimezzamento delle emissioni globali entro il 2050".Nonostante questa dichiarazione sia stata criticata per l'assenza di obiettivi vincolanti, essa rappresenta il primo documento su cui le maggiori economie mondiali hanno apposto la propria firma che menziona la necessità di tagliare così tanto (una riduzione del 50% a scala globale potrebbe significare un taglio fino all'80% per le nazioni del G8!) in un periodo più breve. Proprio per questo motivo l'attesa per il summit era grande, come si può anche leggere su questo post di Sergio Zabot.

Nonostante il semifallimento del summit di Bruxelles, nel quale Italia e Polonia si sono distinti come i Paesi europei più recalcitranti ad adottare misure in grado di ridurre le emissioni di gas serra, il presidente francese Sarkozy ha sottolineato che "i leader si sono trovati d'accordo all'unanimità sugli obiettivi e sul calendario del pacchetto, che è troppo importante per lasciarlo cadere con una scusa della crisi finanziaria". Nonostante i proclami del governo italiano, dunque, sembra profilarsi una divisione tra la posizione dei tre Paesi Francia, Regno Unito e Germania da una parte, che spingono al fine di trovare al più presto un accordo per iniziare a ridurre le emissioni, nella posizione dell'Italia e di qualche altro Paese, come la Polonia, che invece cercano di frenare su questo argomento, adducendo il pretesto della crisi economica e dei costi troppo rilevanti. 

Il problema è che non è ben chiaro quali siano questi costi. Come è ben evidenziato in un post di prossima uscita sul sito climalteranti.it (da cui traggo alcune considerazioni), infatti, l’errore maggiore è non chiarire di quali costi si stia parlando (si veda anche questo sito di Qualenergia). Ci sono infatti diverse possibilità: 

  1. i costi, per le industrie più grandi, per la partecipazione al sistema di Emission Trading Europeo link, nel periodo 2008-2012;
  2. i costi, per l’Italia, per rispettare gli obiettivi del protocollo di Kyoto nel periodo 2008-2012;
  3. i costi, per le industrie più grandi, per la partecipazione al sistema di Emission Trading Europeo nel periodo 2012-2020 (obiettivo 2020 per l’EU: -21 % rispetto al 2005);
  4. i costi, per l’Italia, della riduzione dei gas serra prevista dal pacchetto 20-20-20, ossia il primo 20 del pacchetto 20-20-20 (obiettivo 2020 per l’Italia: -13 % rispetto al 2005);
  5. i costi, per l’Italia, per la riduzione dei gas serra e l’aumento della produzione di energia rinnovabile, ossia i primi due 20 di tutto il pacchetto 20-20-20 (obiettivo 2020 sulle rinnovabili per l’Italia: +17% rispetto al 2005);
  6. i costi di tutto il pacchetto 20-20-20, ossia compreso anche il costo per gli investimenti in efficienza energetica.

Questi 6 tipi di costi possono essere calcolati all’anno o come valore cumulato nel rispettivo periodo (2008-2012 oppure 2005-2020, oppure anche 2012-2020): si hanno quindi 12 possibilità per ognuno dei tre periodi succitati, cioé 26 possibilità. Ovvio che chi vuole sbandierare l'enormità dei costi per ritardare il più possibile l'adozione delle misure al fine di limitare le emissioni sceglie la cifra maggiore.

Inoltre, ogni azione ha dei costi ma ovviamente anche dei benefici, per il sistema industriale o per l’intera collettività. Tali benefici possono essere diretti (ad esempio: più energia da fonti rinnovabili = meno petrolio importato) e/o indiretti (= meno inquinamento dell’aria, più occupazione, minore spesa per la sanità – malattie favorite dall’inquinamento -, ecc.), e tra loro vi sono anche i rilevanti “danni evitati” al sistema climatico del pianeta, talora difficili da valutare (es. la fusione delle calotte glaciali che innalzano il livello del mare). Costi e benefici potranno essere distribuiti in modo diverso fra il le casse pubbliche, il sistema industriale e la collettività. Chi deve decidere su questo? Ovviamente spetta alla politica decidere di ripartire costi e benefici fra le tre parti, scaricando i costi sui cittadini, su altri settori produttivi o sulle casse pubbliche, come ha fatto nei casi di Alitalia o delle banche. Ed infatti questo tipo di decisioni viene assunto, all'estero: addirittura l'America di Bush, nella colossale manovra salva-banche, ha inserito delle misure per la produzione di energie alternative e la sostenibilità ambientale (si veda questo post di Gianluca Salvatori).

E da noi? Al momento, la nostra politica ha scelto di rinviare il problema e di cercare di convincere anche gli altri membri dell'UE a seguirci su tale strada, come se, attendendo un anno di più, il problema delle emissioni si risolvesse magicamente da solo... Altre considerazioni sull'argomento si trovano sul blog di Antonello Pasini, sull'articolo di Gualerzi de La Repubblica, sull'articolo di Bonanni su La Repubblica,  questo sito.

Tutto questo è molto triste per chi, come chi scrive, è fermamente convinto del fatto che la riduzione delle emissioni, oltre che apportare indubbi benefici per quanto riguarda il rallentamento del riscaldamento del pianeta, contribuirebbe anche ad alleviare il problema dell'inquinamento atmosferico, migliorando la qualità della vita nelle città, avrebbe una ricaduta positiva anche dal punto di vista del risparmio sia a livello personale, sia a livello della nazione intera. Senza contare che i temuti danni ai settori produttivi tradizionali potrebbero venire più che compensati dallo sviluppo dei settori nuovi legati alle nuove tecnologie che saranno necessarie per procedere con una riduzione delle emissioni. Tutto questo potrebbe sembrare fantascienza, ma in realtà non lo è per nulla, perché qualcuno ha già intrapreso da anni questa strada: basta vedere, ad esempio, quanto sta accadendo in Germania, e dare un'occhiata alla tabella presente in alto per accorgersi che neppure i grossi problemi economici derivati dall'unificazione tedesca hanno impedito a questa nazione di diventare il leader mondiale nella produzione ed esportazione di dispositivi per le energie rinnovabili e di impegnarsi strenuamente per arrivare a un accordo internazionale tra le economie più inquinanti del mondo.

Speriamo che anche i cittadini italiani decidono di aprire gli occhi e di chiedere ai propri governanti di imitare la Germania sotto questo punto di vista.

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