Decreti, leggi e riforme sull'università: per ora solo tagli!

Torino, 4 novembre 2008

Mentre l'Italia era in vacanza, i solerti governanti hanno ideato una serie di riforme poi trasformate in tutta fretta in decreti da abbinare alla legge finanziaria per il prossimo anno. Tra di essi, la famigerata legge 133 colpisce l'università, mentre i provvedimenti noti come legge Gelmini riguardano invece le scuole di ogni ordine e grado. 

L’iter parlamentare della legge 133 (il cui testo può essere reperito su questo sito), un enorme calderone all’interno del quale è stato gettato di tutto (ogni argomento con una qualche valenza di tipo economico), ha avuto inizio con la prima lettura alla Camera dei Deputati il 2 luglio 2008, per concludersi con l’approvazione il 6 agosto 2008, e passare poi al Senato. Un mese di discussione, due o tre giorni per settimana, nel completo silenzio dei media e nel periodo di minima attenzione dell’opinione pubblica, in vacanza. 

Cosa decreta questa legge per quanto riguarda l’università pubblica? Cerchiamo di riassumerne qui i punti principali, facendoci aiutare da quanto reperito su alcuni siti (per esempio qui), e tenendo anche conto delle interessanti considerazioni del collega del CNR Antonello Pasini (qui e qui).

1) Il taglio delle risorse economiche destinate all'università pubblica

Questa legge decreta il taglio dei fondi destinati all’università pubblica (noti con la sigla FFO - fondo per il finanziamento ordinario delle università) nella seguente maniera:

- 63.5 milioni di euro per l’anno 2009;

- 190 milioni di euro per l’anno 2010;
- 316 milioni di euro per l’anno 2011;
- 417 milioni di euro per l’anno 2012;
- 455 milioni di euro a decorrere dell’anno 2013 in avanti;

per un totale di 1441.5 milioni di euro, almeno fino al 2013.

2) La trasformazione delle università pubbliche in "fondazioni di diritto privato"

Per sopperire all’improvviso taglio dei finanziamenti pubblici sopra riportato, lo stato consente alle università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato.
Questo passo sancirebbe la morte di un’istruzione pubblica per tutti, consentendo alle fondazioni universitarie di decidere l’entità delle tasse per gli studenti. Ricordiamo infatti che la legge attuale sancisce che, nell’anno solare, il gettito delle tasse degli studenti non deve superare il 20% dell’importo del FFO, cosa che di fatto pone un tetto massimo alle tasse che si possono far pagare ad uno studente.
Con il passaggio a fondazione l’università potrà (e vista la mancanza di fondi, dovrà) chiedere qualunque cifra agli studenti, senza dover rispondere a nessun tetto prefissato. Il rischio è che venga garantito il diritto allo studio ed ad una formazione di qualità solamente a chi può far affidamento su una grande capacità economica.
Inoltre, l
e università rischierebbero di doversi trovare uno "sponsor" che le finanzi. Inutile dire gli effetti devastanti che avrebbe un controllo economico di questo tipo sulla ricerca in tutti i vari settori universitari: il rischio è infatti che la ricerca venga condotta secondo le direttive impartite dalle società finanziatrici, decise solo in base alla redditività.

3) La riduzione del turn over (articolo 66)

La stessa legge decreta una drastica riduzione del personale universitario alle facoltà stesse, che si trovano costrette improvvisamente a mandare obbligatoriamente in pensione chi ha maturato i requisiti necessari, o altrimenti a licenziare parte del proprio organico. Inoltre impone un turn over bloccato al 20% fino al 2012, ed al 50% successivamente, ovvero un nuovo assunto ogni cinque pensionamenti o licenziamenti o anche semplicemente avanzamenti di carriera, impedendo di fatto la logica sostituzione nelle posizioni didattiche per mantenere l’offerta d’insegnamento.
Matematicamente qualcosa non torna. Si rinuncia a personale docente, chiedendo ai ricercatori di assumere il ruolo di docenti, mantenendo la stessa retribuzione e lavorando fuori dai compiti stabiliti dal loro contratto (che non prevede nessun obbligo di insegnamento, tant'è che si chiamano ricercatori e non professori).
Con questa situazione, l’unica soluzione sarebbe sopprimere corsi d’insegnamento, fino a giungere addirittura alla cancellazione dei corsi di laurea meno frequentati o considerati di minor interesse.
Inoltre, i giovani laureati che volessero intraprendere la carriera universitaria dovranno armarsi di pazienza e prepararsi ad attendere anche minimo 4-5 anni prima che vedano aprirsi le porte di una micropossibilità di posti.

Questi sopraelencati sono solamente i problemi più grossi a cui questa legge condurrebbe, ma basta leggere con attenzione il testo della legge per trovare altre note di interesse, come il differimento, per 12 mesi, con effetto dal 1 gennaio 2009, degli scatti stipendiali biennali di anzianità dei docenti e dei ricercatori e la diminuzione delle risorse destinate alla contrattazione integrativa per il personale non docente.

La risposta di alcuni esponenti del governo a queste considerazioni ed alle logiche manifestazioni da parte della quasi totalità del corpo docente e degli studenti che ne sono conseguite sono state odiose ed irritanti in quanto hanno avuto il solo scopo di denigrare la categoria degli universitari nei confronti dell'opinione pubblica, sottolineando sempre e soltanto i problemi del sistema universitario ed evidenziando sempre i dati che potevano avere un impatto negativo sul pubblico.

Intendiamoci: nessuno nasconde che i problemi esistono all'interno dell'università, così come in qualunque settore, Ministeri compresi. Ciò di cui l'intera categoria si lamenta è che la legge 133 non risolve nessuno dei problemi, in quanto esegue soltanto dei tagli su un settore già abbondantemente penalizzato dalle scelte della politica italiana, che destina alla ricerca soltanto l'1% del PIL (altre nazioni industrializzate invece destinano anche più del 3%: vedasi più in basso). 

Sparare a zero sugli universitari dando estremo risalto a qualche comportamento anomalo e sminuendo il lavoro altrui è un atto che può definirsi solo arrogante. Un docente universitario non insegna soltanto, ma fa anche ricerca, ed il totale delle ore lavorate nel corso dell'anno è ben maggiore di 60, numero scritto da alcuni organi di stampa (si veda per esempio qui). Che ci sia qualcuno che lavora poco sarà pur vero, ma forse tutti i politici partecipano a tutte le sedute, commissioni, ecc.?

Un esempio è questo: in questi giorni si parla tanto del problema delle "dinastie familiari", come se fosse un problema che esiste solo nell'università. Si dice che sarà proibita l'assunzione dei familiari nelle università. Ma se uno è così "influente" da riuscire a far sì che un proprio familiare venga assunto nonostante non sia un genio, questo provvedimento lo fermerebbe? certamente no: data la sua "influenza", troverebbe presto un suo "collega" di un altro ateneo nelle sue stesse condizioni proponendogli uno scambio. Eppure molti sono convinti che questo sarebbe un provvedimento giusto!

Inoltre, tanto per sfatare il luogo comune per cui l'università produce poco, alcune considerazioni inviateci dal collega Ugo Amaldi ci permettono frattanto di comprendere che il valore della ricerca scientifica di punta condotta in Italia non sfigura affatto nei confronti di altre realtà così come ci si vuole far credere. Naturalmente, occorre interpretare i dati di letteratura nella maniera opportuna, tenendo conto del numero dei ricercatori e dei finanziamenti alla ricerca, che vedono l'Italia in una decisa posizione di retroguardia rispetto ad altre nazioni industrializzate. Questo non vuol naturalmente dire che non si deve criticare il sistema attuale e cercare di migliorarlo epurando la ricerca inutile e di livello locale che si fa anche nelle Università e negli Enti di ricerca.

Infatti, Amaldi osserva che, in questo periodo, la ricerca italiana è denigrata da (quasi) tutti senza tener alcun conto del fatto che i finanziamenti annuali e il numero di ricercatori sono in Italia molto inferiori a quelli degli altri paesi sviluppati. Sir David King, consigliere scientifico del premier Blair, ha pubblicato su Nature nel 2004 (Vol. 430, 311-316, reperibile qui) un articolo intitolato “The scientific impact of Nations” da cui si deduce - con semplici operazioni di divisione - che questi (pre)giudizi non hanno alcun fondamento. 

Cominciamo dal principio. La Tabella 3 qui sotto riportata dimostra infatti che l’Italia ha la metà dei ricercatori della Francia e del Regno Unito, nonostante le popolazioni siano uguali. Il numero di dottorati di ricerca è addirittura tre volte inferiore. Questi numeri fanno riflettere, comunque!

La Tabella 1 contiene invece il numero degli articoli scientifici più citati negli anni 1997-2001. Il criterio scelto per definire i lavori “più citati” è molto restrittivo: si tratta della fascia che contiene soltanto l’1% degli articoli che hanno ricevuto citazioni in ogni campo sia di scienza che di ingegneria considerato separatamente. Non si privilegia cosí alcun settore della ricerca. Questa valutazione è stata fatta dal Thomson Institue for Scientific Information analizzando 8000 riviste pubblicate in 36 lingue. I risultati mostrano che, relativamente al numero di articoli scientifici molto citati, l’Italia si piazza al settimo posto dopo gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania, il Giappone, la Francia e il Canada, lasciando parecchio indietro la Spagna, la Russia ed altre nazioni. Un risultato già abbastanza significativo di per sé.

Ma il confronto non è corretto, perché non soltanto l’Italia ha molti meno ricercatori per abitante, ma anche l’investimento per ricerca e sviluppo, come tutti sanno, è l’1% del Prodotto Nazionale Lordo, mentre la Francia e la Germania investono quasi tre volte di più. Bisogna quindi dividere i numeri della Tabella 1 per quelli della Tabella 3. 

Cosí si vede che l’Italia della scienza e dell’ingegneria di punta supera, nell’ordine, gli Stati Uniti, la Francia, la Germania e il Giappone. In conclusione, i nostri pochi fondi sono investiti bene ed i caposcuola esistono.

Insomma, queste poche righe hanno lo scopo di dimostrare che la campagna denigratoria in atto verso il sistema universitario a partire dalla scorsa estate non ha fondamento. Nello stesso tempo, i numeri sopra riportati lanciano un allarme, per ora inascoltato, sull'esiguità del numero dei ricercatori e dei finanziamenti destinati alla ricerca (ed all'università) nei confronti di altre nazioni nostre pari. Se fino ad ora la nostra nazione è riuscita comunque a fornire un prodotto di alta qualità per quanto riguarda la ricerca, in particolare quella di punta, ulteriori tagli al settore rischierebbero di produrre un effetto di retroazione negativa che potrebbe portare ad effetti deleteri per l'intero sistema.

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